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Sacro
preghiera

Ammiro le persone che frequentano il sacro nel quotidiano.
Quotidiano non solo nel senso di giornalmente, ma ovunque, nella vita comune, nel mezzo del caos o del non senso.

Osservo gli anziani Senegalesi. Dico così, perchè quello senegalese è uno dei flussi migratori che a Genova vanta una storia più lunga, quindi in questa comunità non ci sono solo giovani in cerca di un futuro migliore, ma anche persone che da molti anni vivono e lavorano in Italia e quindi interi nuclei famigliari, anche “seconde e terze generazioni” – termini assolutamente impropri ma ci siamo capiti.

Mi fanno tenerezza perchè in quell’età della vita in cui dovrebbero rallentare, rassicurati dalle abitudini di luoghi e persone care, loro ancora resistono attaccati strenuamente alle pratiche che forse hanno imparato da piccoli in una delle tante scuole coraniche, quasi come se solo quei gesti  potessero restituire un senso allo spaesamento, al disordine integrale che vivono (mentale, morale, sociale, religioso) e proiettarli a casa.

Indossano spesso il cappello da preghiera, sgranano il loro chapelet, le labbra si muovono formando parole mute, a volte nel telefonino hanno la app per la lettura delle sure o per l’orario in cui spezzare il digiuno in Ramadan. Il più delle volte li vedo in treno. Pregano tra i turisti che vanno alle Cinque Terre, tra i pendolari, le suonerie improbabili, le chiacchiere e gli spuntini dei vicini di sedile. Anzi, degli altri viaggiatori, perchè in pochi si siedono realmente vicino a loro.

Nel mondo bianco, il mio schema corporeo, attaccato in diversi punti, crollava, cedendo il posto ad uno schema epidermico razziale, così sperimentavo la conoscenza alla tripla persona… nel treno, invece di un posto me ne lasciavano tre. Ero responsabile al tempo stesso del mio corpo, della mia razza, dei miei antenati. Franz Fanon – Pelle nera, maschere bianche

Mi torna in mente mia nonna che sgranava il rosario davanti alla TV, accanto alla finestra, buttando un occhio al quiz della sera e l’altro ai passanti in strada. Mi è sempre sembrato un modo per lavarsi distrattamente la coscienza e poter smarcare le preghiere dai doveri giornalieri, quando forse era un modo di normalizzare il sacro, maneggiarlo con naturalezza nel quotidiano, perchè è una dimensione interiore così solida da non temere distrazioni esterne, da non necessitare incensi, altari, smudge di salvia bianca, posizioni del loto, abiti bianchi o riti esotici. Proprio lei che dalla Chiesa era considerata impura ogni volta che partoriva e doveva rispettare una quarantena e farsi benedire per poter tornare alla vita normale (usanze legate alla festa della della Candelora). Eppure quando la sera era lei a mettermi a letto non mancava la domanda: le hai dette oggi le tue preghiere?

Molto spesso il nostro senso di sacro è così fragile e poco frequentato da dover ricorrere a saperi e tradizioni d’altrove, aggrappandoci a boccette di agua florida, quemas, candele bianche, meditazioni, capanne sudatorie… provarle tutte per riconnetterci a quella dimensione, nel bisogno.

Per tutti quei saperi “venuti d’altrove”, la sfida rimane quella di una loro possibile integrazione organica in Occidente, per evitare che diventino un prodotto di consumo supplementare che, disarticolando ancora di più la persona, viene posto al servizio dell’efficacia dell’individuo. La maggior parte di queste terapie è sradicata in modo brutale da un insieme antropologico e culturale che non è quello della postmodernità ed estraendo una serie di pratiche dal loro contesto, si procede ad un riduzionismo che equivale a ciò a cui si vuol porre rimedio in realtà. Miguel Benasayag – Oltre le passioni tristi

Con sacro ci riferiamo ad una dimensione divina, ultraterrena, sovrannaturale, legata all’ambito storico-religioso, ma anche antropologico e fenomenologico. Cioè la capacità di oltrepassare una realtà ordinaria, fatta di materia, per incontrare piani sottili, energie invisibili. Per me il divino di cui è permeata la nostra cultura di origine ha vacillato molto presto, portandomi a mettere apertamente in dubbio quanto mi veniva impartito alle lezioni di catechismo, ad intavolare discussioni scomode con insegnanti, ad organizzare campagne di boicottaggio collettivo tra i compagni, ma soprattutto a non sopportare la compostezza richiesta e quel senso di pesantezza di un aleggiante senso di colpa, entrambi inspiegabili e insensati per il corpo vivo di una bambina.

La foto qui a fianco mostra tutta la mia frustrazione e il mio scarso entusiasmo nel ricevere la mia prima comunione per di più con l’abito da frate dismesso da mio fratello.

Mi sono allontanata dal disciplinamento del corpo, almeno in ambito religioso, per poi subirlo a diversi livelli in altri ambiti ed epoche della mia vita (8 ore seduta tra i banchi di scuola, lo sguardo maschile sul mio corpo adolescente, la pratica artistica in un’accademia, viaggi in Paesi musulmani, etc.).

E’ a Foucault che dobbiamo il concetto di corpi docili o disciplinati, come critica ad un ambito politico, religioso, economico, corpi colonizzati attraverso istituzioni militari, scolastiche, mediche, industriali con il controllo e lo sfruttamento come fine ultimo.

Il dialogo con l’invisibile nella mia vita non si è interrotto anzi si è moltiplicato in tante forme che per me oggi sono quotidiane: il campo morfico al centro della pratica costellativa, una sorella che riceve messaggi dagli antenati defunti, famigliari che hanno sogni rivelatori e premonitori, e soprattutto la capacità di vedere che mi dà la danza, non quella che insegno, ma quella che pratico come rituale, qualcosa che si avvicina più ad una preghiera, ad una meditazione in movimento, che raramente ho osato condividere, ma che spesso è innesco delle mie più grandi scoperte, aprendomi a frammenti di memorie lontane, precedenti, altrui o manifestandomi strade e intuizioni. Qualcosa che mi accompagna quasi ogni mattina.

Bisogna distinguere la routine dalla ripetizione. La ripetizione autentica ricorda il suo oggetto in avanti, è una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. Essa stimola la durata e l’intensità, fa si che il tempo indugi. (…) I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei poichè gli ordini e i valori vengono fisicamente esperiti e consolidati, iscritti nel corpo , interiorizzati creando una conoscenza e una memoria incarnate. La scomparsa dei riti – Han Byung-Chul

E’ del corpo che mi fido per dialogare con l’incoscio, per aprirmi al sacro, ma ammetto il grande limite di non riuscire ad onorarlo come un tempio, di non percepirlo come tale nel mondo ma solo in “spazi speciali”, di non essere in grado di farlo tra la gente, solida e senza temere giudizi, di essere troppo permeabile all’esterno e ancora una volta vorrei avere anche io un tappetino da preghiera, che più che un oggetto cultuale, a volte mi sembra il tappeto magico di Aladino, in grado di trasportare in un’altra dimensione, creare un’isola protetta e permettere di dialogare con Allah anche nel parcheggio di un autogrill come se si fosse in moschea.

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