Ho cominciato a camminare a 9 mesi.
A 6 anni il primo viaggio intercontinentale con i miei genitori e ad 11 anni ero già all’estero da sola “in famiglia” per imparare le lingue straniere. Da quel momento ho collezionato km. Sgrano un rosario di incontri, accenti, sapori, non-luoghi di transito/attesa/alienazione aeroporti e stazioni tutti uguali ovunque fossi, spesso in compagnia di amici, quasi sempre guidata dal filo rosso della danza che negli anni mi ha permesso di intessere una rete di contatti ed esperienze dalla Russia al Canada, da Los Angeles al Burkina Faso.
Mio marito fa 100 m in 11 secondi. Correre è una forma di meditazione: lo radica, lo ricentra, lo scarica. Ad ogni falcata il piede preme sul suolo, spinge, “bussa alla terra”. Oggi.
Corro da sempre. La vita mi ha preso a schiaffi fin da piccolo e correre significava tentare di sopravvivere. Per andare a scuola dovevo fare 12 km al giorno, spesso a stomaco vuoto. Gli si appannano gli occhi e si commuove al ricordo di una signora che sulla strada gli regalava gli scarti bruciacchiati delle frittelle o di una compagna che vendeva dolcetti e gliene allungava uno ogni tanto: “Quando potrai me lo pagherai” gli diceva, lasciando nell’aria un debito per salvare la sua dignità.
Per andare a scuola serviva una divisa e mia zia – che all’epoca si occupava di me – non voleva aiutarmi, così dovevo andare al mercato o di casa in casa girando tutta Bamako per vendere la sua merce. Ripagato con pochi centesimi, in 3 mesi, ho messo insieme 6000 CFA (circa 10 euro) e ho potuto comprarmi la divisa e aver così il permesso di entrare in aula. I compagni quel giorno mi hanno accolto in piedi con un applauso: tutti conoscevano i sacrifici che facevo per accedere agli studi.
Molti dei ragazzi africani che conosco parlano de L’Aventure, una specie di viaggio di iniziazione. Un po’ spinti dalla sete di conoscere, una po’ dalla necessità di trovare opportunità migliori, si parte. Si conferma così a sé e agli altri di essere adulti, si parte senza una meta precisa, spesso senza niente in mano, contando sull’ospitalità altrui e sugli incontri del destino, ci si mette alla prova.
Dal Mali al Burkina Faso, Togo, Ghana, Benin poi Nigeria, Camerun, Algeria, Tunisia, Libia, l’inferno, il mare, Lampedusa e Genova. Aerei niente, barcone 1, quello fortunato in mezzo a 4 che sono affondati, molti pullman (se così si può chiamare un mezzo ribattezzato Dieu merci/ Grazie a Dio…se arrivo) e soprattutto molta polvere sotto i piedi.
“Ho viaggiato molto grazie alla musica, sono stato in Paesi che non avrei visto, ma è sempre stato il viaggiare privilegiato di chi è consapevole di essere atteso (…) Proprio per questo mi sono chiesto infinite volte come sarei stato io se avessi dovuto gestire un’emergenza così definitiva da impormi la decisione di lasciare i miei luoghi, la mia gente, i colori e gli odori che mi accompagnano anche nei sogni”
G.M.Testa – Da questa parte del mare
Ci sono stati anni in cui vivevo con la valigia in mano, divisa tra 2-3-4 città ogni settimana. Mi svegliavo di notte per andare in bagno e impiegavo qualche secondo prima di ricordarmi dove fossi. Fino a che è arrivato forte il bisogno di ritrovare un centro. Il cambiamento era già in atto quando un paio di anni dopo è arrivato Issiaka nella mia vita. Più che una rivoluzione, uno tsunami. E’ cominciato un nuovo tipo di viaggio. Entrambi avevamo vissuto sparpagliati in ogni dove, seppur con storie e circostanze diverse. Ci siamo ritrovati piantati in un posto, legati a qualcuno. Per scelta, certo, ma tutto era nuovo, strano. E’ stato come imparare di nuovo a camminare, i nostri schemi sconvolti. Per la prima volta era come se il viaggio cambiasse direzione, non in superficie, disegnando una mappa di spirali, ma in profondità, in un’altra dimensione, risucchiati da un gorgo.
“Allora la terra si chiamava ancora con il suo primo nome, Ctòn (…) ctonio, vale a dire sotterraneo, oscuro, profondo appunto, dunque invisibile, e perciò implica non la dimensione orizzontale, ma quella verticale, l’abisso. Ctòn, nome terribile, che pronunciato ad alta voce corrisponde, a farvi caso, proprio al tonfo di un sasso inghiottito dall’acqua alta”. F. Farinelli