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Di carne e distanze
corpi

In queste ultime due settimane sono stata ospite di due eventi molto partecipati e intensi emotivamente, che mi hanno portato a fare riflessioni sul corpo e la prossimità che voglio condividervi.

Mi rendo sempre più conto che “il principio dell’algoritmo” non lo si vive solo sui social ma anche nella realtà quotidiana. Le mie frequentazioni settoriali spesso mi fanno immaginare che “tutti” la pensino così o si comportino così, per poi sporgermi leggermente fuori e rendermi conto di essere parte di una nicchia. Lo abbiamo sperimentato nella politica (i risultati delle elezioni) nella biopolitica (covid e vaccini), lo vivo continuamente grazie ai miei studi (antropologia, 5LB, costellazioni, psicogenealogia) e lo vivo per gli ambiti che frequento per lavoro o formazione (danza/teatro/intercultura).

Tempo fa mi sorpresi ascoltando i racconti di una sociologa italiana sulla sua esperienza in Marocco, colpita dalla naturalezza con cui le donne arabe nell’hammam si svestivano insieme, si insaponavano l’una con l’altra, condividevano la propria nudità tra chiacchiere ad alto volume e cura del corpo altrui. Mi sorpresi perchè lei sottolineò la tipicità di queste abitudini legandole all’area geografica e culturale, sottolineando la “nostra” estraneità, mentre io non le trovavo così diverse dalla vita negli spogliatoi di una scuola di danza o dal momento di relax finale di molte classi dove ci si massaggia a vicenda, tra abiti sudati e odori intensi.
Non una “questione d’oltremare”, ma appartenenza subculturale quindi.

“Il corpo culturale, elaborato, dipinto, segnato diventa allora un testo, scritto in una lingua particolare, che la rispettiva cultura è in grado di decifrare (…) è materia malleabile da personalizzare secondo schemi culturali o individuali, attraverso cui gli uomini possono scrivere la loro storia, la loro vocazione, i loro disagi, le loro gioie, il loro dolore (…) viene scolpito, modellato, amputato – rivestito o spogliato aggiungo io. (…) E’ il processo detto antropopoiesi: la costruzione identitaria dell’individuo sociale”
M.Aime – Il primo libro di antropologia

Le mie pratiche in danza o in disegno dal vivo in Accademia, mi hanno abituato ad avere a che fare da vicino con i corpi altrui, spesso nudi, spesso così prossimi da condividerne umori, aliti, sudori, odori, calore. E’ qualcosa che in quei contesti si spoglia di malizia pur restando sensuale – sensuale in quanto esperienza che passa concretamente attraverso tutti i sensi stimolandoli – e resta solo un corpo che è carne, sangue, muscoli, ossa, mezzo espressivo, strumento.

Solo qualche giorno fa, ero dietro le quinte di un teatro, preparandomi ad andare in scena. Si trattava di una serata che ha riunito tanti artisti diversi, i camerini erano occupati dai musicisti che chiacchieravano e accordavano gli strumenti, io li ho lasciati tranquilli, trovando un altro spazio e mi sono “naturalmente” spogliata nel corridoio. Uno di loro tra il premuroso e l’imbarazzato mi ha subito chiesto se volessi che mi lasciassero il camerino. E’ bastato quel gesto per farmi sentire il diverso rapporto con la promiscuità tra chi fa musica e chi fa danza, sentendo addosso uno sguardo che mi ha fatto sentire “una signora in mutande” e non una collega che si prepara ad andare in scena.

Viceversa ho recentemente preso parte ad un festival che ha riunito 5 artisti da diversi continenti. Con alcuni non ci eravamo mai visti e non avevamo neanche un terreno comune di una lingua franca in cui comunicare. Abbiamo scambiato le nostre pratiche, creato insieme sequenze comuni, montato uno spettacolo in poche ore, condiviso pasti, stanchezza, adrenalina da palco. Per giorni – così intensi da sembrare settimane – ci siamo detti molto attraverso sguardi, sorrisi, gesti, muovendoci incerti su idiomi altri, sempre tornando al porto sicuro dei linguaggi artistici. E poi gli abbracci e la prossimità. Quanto è stato naturale trovarmi a riposare abbandonando la mia testa sulla spalla di A., in quel momento per me un’anima affine che percorre un tratto di destino con me?! E ancora, quant’era naturale che Z. mi guardasse e con gli occhi che esplodevano di gioia per l’intensità della giornata, mi abbracciasse di slancio perchè quella pienezza la portassimo addosso un pò per uno, quasi come se la dovesse scaricare e per lui fosse troppa?! Eppure non so quasi nulla di loro, sono in fondo due colleghi, semi-sconosciuti, entrati direttamente nel mio spazio intimo dai primi minuti insieme.

“Hall ha individuato quattro tipi di distanza:
distanza intima (0-45 centimetri) in cui ci si abbraccia, ci si tocca e si parla sottovoce, quella degli innamorati; la distanza personale (45-120 cm) che caratterizza l’interazione tra amici stretti; la distanza sociale (1,2,3,4 metri) che determina la comunicazione tra conoscenti; e infine la distanza pubblica (oltre i 3-5 metri) utilizzata nelle pubbliche relazioni. Non sono distanze innate ma costruite culturalmente, perchè ad ogni società corrispondono diverse modalità di rapportarsi nello spazio”.  M. Aime – Il primo libro di antropologia

Forse è proprio quella distanza sociale imposta negli ultimi anni, forse il fatto che il mio lavoro mi abitua a sempre più ore trascorse da sola, ma non ho potuto fare a meno di capovolgere il mio sguardo ogni tanto e osservarci da fuori, come chi non si è formato in ambito artistico, come chi non appartiene a questa comunità, perchè era una prossimità così intensa da ubriacare, da chiedere decompressione, persino a me, che ne sono stata forgiata, così spontanea da farmi interrogare, così necessaria da farmi rendere conto di quanto ne avessi bisogno. E realizzo come sia cambiata la percezione e la disponibilità del mio corpo dopo anni con un marito musulmano e la sua famiglia, dopo mesi di pandemia, dopo aver passato i 45, aver sentito il corpo trasformarsi, ancora una volta, come nella pubertà, con quella sensazione tra “non più e non ancora”.

Eppure ci siamo concessi l’intimità degli innamorati.
Subito, senza troppe parole.
E il mondo ne ha bisogno come l’aria.

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